L’ATTESA, MOSTRA DI FRANCESCO TESTI

Cinema del Carbone, 11 marzo - 11 aprile 2024


Francesco Testi è un artista mantovano di 36 anni. Dopo il Liceo Artistico, si è laureato all’Accademia di Belle Arti a Bologna e ha lavorato come atelierista per musei e scuole.

Ma siccome la vita un po’ si sceglie e un po’ si subisce, certe fragilità di Francesco vengono a galla ed è costretto a un ricovero in psichiatria.  

Ed ecco il tempo dell’attesa.

Non si aspetta Godot, niente di metafisico, è piuttosto l’attesa molto concreta del pranzo o della cena, del momento della terapia, delle visite dei famigliari o dei medici e, soprattutto, di non soffrire più e uscirsene da lì. Per ingannare il tempo, che è poi ingannare la vita, fregarla questa vita prima che ci freghi lei definitivamente, Francesco disegna.  

Lo fa con quello che ha a disposizione, un foglio e una biro. Nascono così ruote molto simili ma sempre diverse, pulegge di un ingranaggio nel quale si trova inglobato, vuote all’interno, immerse in uno spazio infinito. Vuoto dentro, infinito fuori. Il limite e l’ignoto, un ignoto che fa paura.

Il nostro artista trova nella biologia gli intrecci delle diatomee, alghe unicellulari che vivono sulla superficie dell’acqua e si nutrono di luce, quella luce che anche lui sta cercando. Dentro cerchi perfetti ecco altri intrecci (i lacci nei quali si sente intrappolato?) di corde, o catene o nastri che “annodano il cuore”, come ebbe a scrivere Alda Merini. E sempre la preferenza per le figure circolari. Perché l’attesa è un tempo circolare, il cerchio non ha inizio e non ha fine, in ospedale ogni giorno si chiude come il precedente e sarà uguale al successivo, è un tempo che si raggomitola su se stesso, e nei disegni di Francesco questo tempo sospeso diventa, oltre che ruote ed elementi rotondi, figure comunque tondeggianti, sassi lunari o di chissà quale pianeta, o pianeti essi stessi che emergono dal nero cosmico, con forti contrasti di bianco e nero, attraversati da linee precise, pazienti, che ne delimitano le forme.  

Lo stesso movimento circolare l’artista lo fa anche su di sé, per capire e dare un nome al suo male di vivere. Ed è un malessere che si placa e si sublima in questo incessante lavoro che dura 40 giorni, il tempo del ricovero. 

Ad un certo punto in ospedale arrivano i colori. Le voci che Francesco sente nella testa e che lo inquietano, le disegna, dà un volto ad ogni voce: sono visi che lo guardano, ma non sono visi malevoli o giudicanti, semplicemente assistono a quello che accade, a volte del tutto indifferenti, a volte perfino sorridenti, tra macchie di colore. E il colore si ritrova nei girasoli gialli (omaggio al grande Vincent?) e nella ragazza coi capelli azzurri, in un buco lunare pieno di luce e con sfumature azzurre intorno. Ma la preferenza rimane ancora per il forte contrasto bianco-nero, luce-tenebra. C’è anche un teschio e un mostro con tanti occhi, ma anche la sagoma del padre che gli appare con le mani dietro la schiena e i suoi pantofoloni: è un’attesa abitata da aspetti contrapposti. 

Ed è un’attesa noiosa, “il presente è il solo luogo che non contenga la felicità” scrive Ginevra Bompiani che Francesco legge: il ricordo del passato è sempre migliore, l’ostinata speranza del futuro altrettanto, quindi il dramma si consuma sempre nel tempo presente.  

La noia si può vincere solo spezzando le catene del tempo immobile, e allora, con un’applicazione del cellulare, l’artista fa muovere le sue forme, e gli ingranaggi, vuoti all’inizio, si riempiono di colore al loro interno, e pulsano in cerca di vita.

Buchi neri che si allargano e inglobano il colore, per tornare a rimpicciolirsi: finalmente è un cosmo in movimento. 

Francesco, con estrema sincerità, nulla nasconde di quei 40 interminabili giorni: si mette a nudo lasciando perfino in mostra il diario annotato quotidianamente, che mostra una  speranza mai doma (“Voglio tornare a vivere cinque minuti alla volta”), che convive con mille paure (delle aspettative, di fallire, di non essere autonomo …). Perché nel caos del mondo una certezza resta: l’arte. E l’arte o è verità, o non è. Semplicemente.

- Luisa -